L’identità di genere e la cultura delle Pari Opportunità.
Cinzia Mion
Le nuove Indicazioni per la scuola del primo ciclo e le recenti interessanti “Misure di accompagnamento” mettono a fuoco, tra gli altri argomenti educativi, anche la tematica dell’identità di genere, da affidare ad un intervento precoce, per cercare di realizzare i presupposti di una relazione futura, tra uomini e donne, più armonica e senza prevaricazioni o sudditanze, di cui le cronache oggi sono tragicamente costellate.
Offro questo contributo per aiutare le scuole in rete ad impostare un eventuale progetto su tale tematica.
L’argomento che ci apprestiamo a trattare non è semplice e soprattutto sembra non avere molte attrattive se succede, come succede, che spesso ci ritroviamo in poche persone a partecipare a degli incontri in cui si dibattono argomenti che toccano queste tematiche.
L’interesse per l’identità di genere appare verso la metà del secolo scorso.
Simone de Beauvoir diceva “Maschi e femmine si nasce, uomini e donne si diventa”.Significa che il passaggio da una posizione all’altra consiste in un processo culturale ed educativo, lungo e a volte anche difficile che accompagna i soggetti dalla nascita in poi.
Gli stereotipi sessisti a quel tempo non solo non erano debellati ma nemmeno scalfiti e connotavano caratteristiche superate ed anacronistiche, il più delle volte all’insegna ella sopraffazione del maschile sul femminile, sotto l’egida del cosiddetto patriarcato.
A dire il vero però le donne, uscendo di casa per lavorare, riscattandosi da rapporti di sudditanza, avevano già conquistato pian piano, attraverso una nuova autonomia , anche una nuova identità, arricchita di capacità di assumere responsabilità, prendere decisioni, affermarsi nel lavoro, appannaggio un tempo solo degli uomini.
Il movimento femminista intanto aveva accelerato la spinta verso l’emancipazione delle donne avendo presente però soprattutto l’ assimilazione alle caratteristiche del maschile in quanto “genere privilegiato”. In altre parole questo movimento tentava la carta dell’uguaglianza sul piano dei diritti, trascurando le peculiarità che facevano del genere femminile una differente soggettività.
Sulla differente soggettività si concentrò il pensiero della differenza.
Il pensiero della differenza
La risoluzione epistemologica compiuta dalla filosofia del pensiero della differenza consiste nel leggere lo scarto tra maschi e femmine non come deficit, come è sempre avvenuto tradizionalmente, bensì come differenza che dà origine a due distinte modalità di pensiero, per tentare di trasformare in risorsa alcuni aspetti fino a quel momento svalutati, perché femminili.
Il pensiero della differenza nasce come critica alla omologazione al maschile del femminismo e come sofferenza per una uguaglianza troppo costosa, che richiede di rinunciare a parti di sé.
Il differenzialismo, così E.Badinter ha definito tale pensiero , si è però insabbiato in una eccessiva, anche se suggestiva, enfasi intorno ad una visione biodeterministica della essenza della femminilità che deriva dal “poter concepire e nutrire un vivente con il proprio corpo”( L.Irigaray, La democrazia comincia a due, p.132, Bollati Boringhieri)
Da questa affermazione deriva un ritorno al sublime materno, esaltazione finalizzata non a segregare a casa le donne, ma ad esortarle a privilegiare i rapporti tra loro.
La differenza deve diventare un motivo di orgoglio, un privilegio, una spinta ad affermare il proprio protagonismo a fronte di un mondo dominato dal maschile, assunto come neutro, dove questo “ordine dell’uno” è stato costruito su un’amnesia, amnesia che ha fatto cancellare o dimenticare la differenza di genere, nella fattispecie quella femminile.
Il pensiero della differenza si è fortemente contrapposto al concetto di uguaglianza affermato dal femminismo ma attraverso la pedagogia della differenza, vale a dire l’applicazione educativa a scuola di tale pensiero, ha privilegiato l’universo femminile, puntando sulla separazione dei sessi, teorizzando differenze insuperabili perché ancorate appunto al determinismo biologico, e auspicando dei rapporti privilegiati tra docenti donne ed allieve, attraverso la pratica chiamata dell’affidamento o dell’affiliazione.
Questa pratica – ora abbastanza abbandonata per ovvi motivi di sperequazione di trattamento in classe ed anche perché, come vedremo, il genere maschile ha perso arroganza e pretese – serviva alle insegnanti ad aprire alle loro allieve le vie della conoscenza e del riconoscimento che si nutre di stima ed affetto.
In questo modo si intendeva legittimare il desiderio nascosto di protagonismo delle ragazze.
Il differenzialismo si è affermato come pensiero filosofico ma non come pensiero pedagogico perché in questo ambito ha mostrato tratti di radicalismo ed è stato rifiutato dalla scuola. Non era possibile lasciare da parte i maschietti, altrettanto bisognosi di attenzione per privilegiare le femminucce. Ad un certo punto le fautrici di tale posizione si sono rese conto della sua insostenibilità ed hanno cominciato a declinare le loro raccomandazioni anche al maschile ma si sentiva lontano un miglio che questa inclusione era solo un’espressione linguistica usata per parare le critiche ma che il loro pensiero restava intatto, anche perché altrimenti avrebbe perso tutta la sua originalità e fondamento.
Luce Irigaray , la più autorevole esponente di tale movimento, è stata la prima a non essere d’accordo con la trasposizione del pensiero della differenza in una pedagogia così attiva e pedissequa, raggiunta dalle sue seguaci.
Sia femminismo che differenzialismo sono stati il frutto comunque del paradigma culturale della linearità che obbediva alla logica binaria “o” uguaglianza “o” differenza.
A tentare di fare la sintesi negli anni 80 è apparso nella comunità scientifica il paradigma della complessità. (v. BocchiG.,Ceruti M..,a cura di, La sfida della complessità, Feltrinelli, 1985).
La complessità, con la sua dimensione multilogica e multidimensionale, ci ha permesso di coniugare uguaglianza e differenza da cui è scaturito il pensiero delle Pari Opportunità, vera rivoluzione culturale per mettere in moto dei processi dinamici adeguati a migliorare la situazione e la visione del mondo utili a tutti e due i generi.
La differenza va riconosciuta, rispettata come limite, parzialità, per entrambi i generi, perché è questo che garantisce la vera intersoggettività: la relazione paritaria che deve evitare la fusionalità, il possesso e l’esercizio del potere con la riduzione dell’altro ad oggetto.
La violenza sulle donne nasce dalla non accettazione di questa relazione paritaria.
Le Pari Opportunità
Questo sforzo di coniugazione dovrebbe essere realizzato per dare appunto ad entrambi i generi differenti ma equivalenti opportunità di crescita sia emotiva che affettiva (quindi relazionale) sia di protagonismo, di affermazione e di autonomia, (quindi autorealizzativa).
Senza le correnti di pensiero precedenti non avremmo raggiunto però tale lucida conclusione.
Soltanto dentro alle PPOO potremmo avviare quel processo di cambiamento che garantisca la co-responsabiltà dei generi nel progetto di vita; altrimenti la donna sarà sempre condannata alla doppia presenza, alla frustrazione e alla rabbia represse e l’uomo sfuggirà al suo ruolo di padre rifugiandosi nel lavoro, fuori casa…
La vera rivoluzione delle PPOO non consiste però nel costituire all’interno di ogni organismo un comitato parasindacale di protezione e difesa delle donne nella società e negli ambienti di lavoro; la cultura delle PPOO si realizza attraverso un progetto educativo, a partire dalla prima infanzia, che riesca a trasformare gli stereotipi sessisti – che impediscono la realizzazione di identità di genere rinnovate – attraverso l’ assunzione di nuovi ruoli sociali, nuove relazioni tra uomini e donne, improntate ad una dimensione ecologica.
Se infatti l’Ecologia è lo studio scientifico della Interazione tra gli organismi e il loro ambiente, nel più largo senso possibile, individuando gli aspetti favorevoli o sfavorevoli all’armonico sviluppo o mantenimento di queste interazioni si può parlare di ecologia della relazione ed anche di ecologia della relazione donna-uomo.
La prima agenzia formativa è indubbiamente la famiglia la quale però è contraddistinta dalla conservazione per cui può esserci il rischio che certi stereotipi continuino ad essere trasmessi inconsapevolmente, assunti dall’ambiente culturale di appartenenza, come si assume il latte materno.
Sembra infatti che nell’immaginario genitoriale quando nasce un maschio emerga ancora la domanda :-Chi diventerà? quando nasce una femmina invece:-Chi sposerà? E naturalmente per fare un buon matrimonio e dedicarsi con competenza al lavoro di cura servono una buona relazionalità e la capacità a “mettersi nei panni degli altri”.
Storicamente gli stereotipi sessisti maschili erano grossomodo rappresentati da: logos, razionalità , iniziativa, protagonismo, forza, decisionalità, competitività, machismo, ecc.
Quelli femminile invece da: eros, sentimento, emotività, remissività, dolcezza, tenerezza, accettazione, adattamento, sensibilità, sottomissione, ecc.
Dicevamo all’inizio di questo contributo che le donne hanno cominciato presto a contaminare questi stereotipi tra loro e a legittimare la loro parte maschile del desiderio di autoaffermazione.
In famiglia rimane un problema perché se un tempo i maschi in seno ad essa erano indirizzati all’autorealizzazione e le femmine alla relazionalità, (perché destinate storicamente al lavoro di cura) ed oggi per fortuna per le ragazze giustamente si coniugano le due dimensioni, (semmai i rischi sono annidati in un’altra regressione di cui parleremo più avanti) abbiamo ancora dei dubbi che per i maschi questo avvenga, vale a dire che l’attenzione all’alfabetizzazione emotiva e alla valenza relazionale siano assunte nel progetto educativo.
Questo comporterà che, per quanto attiene il tema dell’identità, quella femminile risulta forse meno problematica, più solida; semmai il problema appare nella gestione della doppia presenza del lavoro in casa e fuori casa, quindi nella difficoltà dell’esistenza quotidiana.
In ogni caso le identità nuove”riconciliate” come vengono definite da E.Badinter devono continuamente intraprendere percorsi difficili ed irti di trabocchetti.
Per gli uomini appare la sfida di assumere una particolare riflessività, perché superato il machismo, sappiano intraprendere una strada nuova, accettando la loro parte femminile e tenera, senza perdere autorevolezza per costruire un orientamento per le giovani generazioni di preadolescenti ed adolescenti che guardano ai giovani maschi come modello per capire e trovare una risposta alla domanda cruciale “sono un vero maschio?”
Vedremo che la via per una nuova virilità passerà attraverso la nuova paternità.
Pari opportunità a scuola
Negli anni 90 , e precisamente nel 1989, fu nominato un Comitato Pari Opportunità uomo-donna da parte del Ministero della Pubblica Istruzione che incardinò questo comitato presso l’Ufficio Studi e Programmazione. Il gruppo era formato da rappresentanti delle associazioni professionali della scuola, tra cui l’A.N.DI.S (Associazione Nazionale Dirigenti Scolastici) e dai vari sindacati che l’avevano previsto nel contratto.
La specificità di tale comitato fu subito quella di approfondire il tema delle identità di genere, prendendo in considerazione il fatto che la scuola offre la situazione privilegiata della coeducazione di entrambi i generi, per fare proposte che aiutassero i docenti ad autopercepirsi se fossero loro stessi portatori di stereotipi sessisti, per evitare di trasmetterli, ed invece avviare la nascita di identità nuove attraverso un lavoro di analisi e riflessività puntuale e precisa.
Il comitato , di cui chi scrive ha fatto parte come rappresentante dell’ A.N.DI.S, aveva quindi finalità formative a partire dall’età dei tre anni della scuola dell’infanzia.
Furono varate circolari ministeriali su suggerimento e tracce del comitato, seguite da progetti, convegni e seminari; fu sollecitata dal Ministero la creazione a livello dei vari Provveditorati agli studi di altrettanti comitati provinciali di PPOO.
Il problema però fu ancora una volta un’ambiguità di fondo: quando i presidi ricevevano il materiale e leggevano PPOO, spesso molti di loro rapportavano il tutto ad attività parasindacale di protezione delle donne lavoratrici nella scuola e, asserendo che la scuola era anche troppo in mano alle donne, metaforicamente cestinavano il tutto…
Significava che chi riceveva la circolare non andava oltre l’intestazione.
La difficoltà però non è stata solo questa: nonostante la scuola sia in mano alle donne scopriamo che è una Istituzione ancora troppo maschilista. Ci accorgiamo che spesso i colleghi, ma anche alcune colleghe, considerano le proposte del comitato delle “bagattelle” con cui alcune donne amano trastullarsi.
Nel 1999 il nuovo contratto cambia il profilo del comitato : questo diventa infatti un organismo “paritetico” con quattro membri nominati dai sindacati e quattro nominati dal Ministero. Non abbiamo mai capito il senso di questa svolta mortifera. Le nomine furono modi per avere degli incarichi… La passione e la ricerca che avevano animato il comitato precedente svanì nel giro di qualche mese e alla fine, nel 2000, non venne più riconvocato. Chissà se i sindacati hanno mai analizzato questo flop per provare a capirne le ragioni…
Identità maschile
Negli ultimi decenni le considerazioni attuali sul disagio maschile sono state avvalorate da alcune ricerche di moderna embriologia che hanno scoperto che tutti i mammiferi, compreso l’essere umano, hanno una intrinseca tendenza allo sviluppo in senso femminile. In altri termini la femminilità è il programma di base ed occorre fare qualcosa in più affinché la maschilità prenda forma.
All’inizio del concepimento l’embrione maschile “lotta” per non essere femminile : il ruolo della Y è deviare la tendenza spontanea della gonade embrionale indifferenziata ad organizzare una ovaia, costringendola invece a produrre un testicolo, la cui funzione specializzata sarà produrre l’ormone testosterone (A.Jost Le dévelopment sex. prenatal).
Sarà il bombardamento di testosterone a costituire la svolta verso la maschilità. Anche durante i primi mesi di vita postnatale il bambino, indipendentemente dal sesso biologico, è imbevuto di femminilità: tutta la gestalt materna penetra in lui. Nato da una donna, cullato da un grembo femminile, il bambino, contrariamente alla bambina, è condannato alla differenziazione per gran parte della sua vita.
Da quando sono state messe in luce le difficoltà dell’identità maschile non si può più sostenere che l’uomo sia il sesso forte; anzi gli si riconoscono molte fragilità fisiche e psichiche .
Oggi il disagio maschile viene anche accresciuto dalla consapevolezza della donna dei suoi diritti, tra cui la propria realizzazione e il proprio protagonismo. L’uomo sente che la difesa nello stereotipo sessista non regge più, sta allora cercando la propria identità in una differenza più autentica. Lo attestano le ricerche che stanno fiorendo ma anche i fermenti che contraddistinguono la vita quotidiana e i messaggi che corrono nel web, anche se impregnati ancora di molta ambivalenza. Notevole il contributo dei gruppi maschileplurale che stanno sorgendo, all’inizio per contrastare la violenza sulle donne da parte di altri uomini, ed ora attenti anche al problema dell’identità maschile “riconciliata” , come suggerisce Elisabeth Badinter nel suo bel libro datato, ma ancora valido, “ XYL’identità maschile “.
Nuovi padri
Le stesse difficoltà ed incertezze che sembrano contraddistinguere l’assunzione del ruolo virile sembrano connotare anche l’assunzione del ruolo paterno..
Oggi infatti, accanto ad un comportamento paterno che si defila ulteriormente dalla scena familiare e dal rapporto con i figli, delegando completamente quest’ultimo alla madre, sta emergendo sempre più, soprattutto da parte dei padri giovani, un forte bisogno di dare un senso nuovo alla paternità.
Il padre, dalla prima rivoluzione industriale, ha progressivamente perduto la principale funzione esercitata in precedenza all’interno della famiglia patriarcale, quella di socializzare i figli al lavoro. Da allora egli si trova nell’impossibilità di mostrare ai figli la propria attività lavorativa e conseguentemente di farli partecipare ad essa.
Il lavoro paterno, l’attività che più di ogni altra occupa la ragione e la passione degli uomini, è diventato estraneo ed invisibile agli occhi del figli.
C’è però anche chi cerca soddisfazione al proprio bisogno di paternità, occupandosi del primo accudimento e della prima educazione dei propri figli.
Un padre così, che non ha avuto un modello paterno da cui apprendere – perché spesso figlio di un “padre assente” – senza aver avuto modo di maturare conoscenze ed esperienze, si trasforma in quello che in modo un po’ dispregiativo chiamano “mammo”.
Sa benissimo accudire il proprio cucciolo e questo gli permette di mettersi in contatto con la propria parte tenera e di legittimarla ed è il motivo per cui si afferma che la nuova paternità è la via per la nuova virilità e viceversa.
Il nuovo padre però spesso è in grado di prendersi cura ma non ancora di fare da guida sicura attraverso la reciproca fiducia, di adeguata protezione (non di iperprotezione) e approvazione ma anche dis-approvazione (che non deve però mai diventare s-valutazione) nei confronti dei piccoli. In altre parole l’approccio alle regole e la gestione dei “no” devono avvenire in modo amorevole ma anche autorevole, senza aver paura di entrare in conflitto con dei bambini di due anni.
Forse è anche per questo che si parla di emergenza educativa.
A questo proposito nel corso degli anni la Comunità Europea ha emanato delle raccomandazioni con cui si auspicava “di promuovere ed incoraggiare, nel rispetto e nell’autonomia degli individui, una maggiore partecipazione degli uomini nella cura e nell’educazione dei bambini al fine di assicurare una più equa condivisione delle responsabilità parentali tra uomini e donne”
Conclusioni
La strada per agevolare questo cambiamento non può che essere quello delle decisioni politiche. Intanto si deve capire che per costruire un’identità forte e coesa servono due processi come dice Erikson :quello dell’identificazione con il rappresentante dello steso sesso e quello della differenziazione con il genitore del sesso opposto, processi che valgono anche per le figure significative come i docenti.
Se manca la differenziazione abbiamo solo l’identificazione e quindi il rischio della mancanza di autonomia, il rischio della “clonazione”, della formazione speculare.
Ecco perché è importante che per le giovani generazioni si rendano appetibili anche ai maschi la professione docente e quella dei servizi nell’infanzia, naturalmente con adeguata formazione per tutti, perché bisogna sfatare l’idea che una donna è già per metà insegnante.
Bisogna inoltre sfatare l’idea che una donna, consapevole dei danni che può fare il mammismo italiano, sia in grado a sua volta di gestire in modo diverso il rapporto con l’eventuale figlio maschio. Qui però si apre un fronte che non è il caso di affrontare per ragione di spazio.
Altri provvedimenti : la revisione dei tempi e degli orari delle città – ma questo sta già un po’accadendo -, una maggiore informazione ed attivazione di programmi formativi per le PPOO, avendo cura che non vengano fraintesi; una maggiore attenzione ai programmi televisivi oppure una maggiore competenza dei docenti ad analizzare criticamente, insieme ai ragazzi, i modelli che la TV impone, diffondendoli senza filtri di nessun genere.
Alla fine, perché no? Che venga reintrodotto un nuovo Comitato PPOO, con le medesime finalità, che però venga implementato e sostenuto di più da tutte le Istituzioni deputate ad aver a cuore una ecologica relazione interpersonale tra gli uomini e le donne, presupposto essenziale per il benessere della cittadinanza.
Forse attraverso la “rinuncia”- che riguarda l’avere – diversa dalla “perdita” che riguarda l’essere – sostenendoci reciprocamente insieme, donne e uomini, potremmo non solo incarnare una decrescita auspicabile, felice o serena come si preferisce, ma anche costituire contemporaneamente la svolta per cominciare a porre le basi di “un’etica pubblica”, di cui il Paese ha un disperato bisogno.
Solo infatti attraverso le rinunce di tutti si può pensare di costruire un vero “bene comune” – che non può essere la somma dei beni individuali – e ritrovare alla radice il sapore di quei valori essenziali di relazione interpersonale autentica che le derive del consumismo, del conformismo e dell’indifferenza, ascrivibili al neoliberismo, hanno spazzato via.